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da www.buonafollia.splinder.com

9 Maggio 2006

MY MAN’S GONE NOW

Mi ricordo di quando fare la puttana era legale.
Lo stato mi aveva precettato per lavorare in un carcere di massima sicurezza.
Avevo un stanza mia e ricevevo i clienti due volte al giorno.
Non era una brutta vita.
Loro venivano ben lavati e con la barba fatta. In quei visi emozionati era difficile scorgere il delinquente o l’assassino. E poi avevo imparato a non pensare a queste cose. Per me un uomo è un uomo e questa è l’unica cosa “personale” che mi serve sapere.

Il direttore del carcere era una persona intelligente e comprensiva il tanto che serve.
Mi trattava con garbo, parlando a me come ad un qualsiasi suo dipendente.
Avevamo concordato che sarebbero venuti da me solo i detenuti non violenti e con qualche soldo da spendere. Il mio onorario era fisso e loro pagavano la quota prima di uscire dalla mia stanza, puntualmente.
Facevo un’eccezione solo per alcuni carcerati che, nonostante la loro povertà, il direttore aveva giudicato essere meritevoli o bisognosi di carezze femminili.
Per loro esisteva tutta una prassi fatta di scartoffie: il direttore firmava il lasciapassare che io controfirmavo a conclusione del lavoro. Solo così potevo avere il pagamento delle mie prestazioni, a fine mese.
Comunque questa speciale concessione era cosa rara, anche per non alimentare tra i detenuti invidie o pretese.

Così per anni lavorai con profitto mio e gioia altrui.
Il periodo di precettazione era ormai terminato ma non me ne andavo per una sorta di pigrizia che ho di mio e che in carcere si era accentuata.
Poi, un Giovedì – era di Settembre – entrò dalla porta un uomo pallido e alto. Teneva in mano una di quelle scartoffie firmate dal direttore. Io lo feci accomodare.
Ricordo che lavorai bene quel pomeriggio, lui mi piaceva e poi parlava poco. Prima che se ne andasse firmai la fattura con la mia penna “Patrie Galere”.
Uscendo mi ringraziò del bel pomeriggio.

Incredibilmente, dopo una settimana, quello stesso uomo entrò dalla mia porta, con un altro foglio. La cosa mi stupì poiché era raro che un uomo tornasse così presto… e con una concessione per di più. Ma non mi feci troppe domande, era un tipo piacevole e questo era una buona cosa.
Venne da me ogni Giovedì pomeriggio per 2 mesi poi, una sera, prima d’uscire,
mi disse:
“Fa freddo ormai, se non le dispiace vorrei poter venire 2 volte a settimana… Vederla così poco non mi basta per scaldarmi 7 giorni.” Ammutolii e se ne andò.
Avevo smesso di trovare strana la sua presenza anche perché nessuno degli altri detenuti pareva essere geloso del suo privilegio.
Mi addormentai un po’ stordita.

Il direttore non era tenuto a darmi spiegazioni e mai me ne diede. Ma al pagamento di fine Novembre mi parve nervoso e dimagrito. C’era qualcosa di grosso in giro, qualcosa che lo aveva turbato. Neanche lui era fatto per quel posto brutale. Non gli feci domande.

L’uomo venne da me per altre 10 volte in poco più di un mese. Prese l’abitudine di leggermi poesie mentre io firmavo le carte. Non mi disse mai nulla di sé ma leggeva… leggeva e mi toccava, stanco.
Presi ad attendere le sue visite come si attende un regalo.
Pensai che il direttore m’avesse mandato quell’uomo come un dono, per tanti anni di onorato servizio.

Tra tutti i nostri incontri, ricordo un 30 dicembre.
Credo mi amasse e mi accarezzava i seni con tale grazia che pensai mi volesse tutta per sé – il pensiero mi soffocò per un istante. Poi tornai a non pensare, da brava professionista.
Alla fine mi disse:
“Signorina… se non le dà noia… io vorrei poter venire anche domani…
ci sono così tante luci accese in città… ed io… in questo buio non riesco ad arrivare da solo… fino all’anno nuovo.”
Annuii – confusa – e lui uscì dalla mia porta.

Chi era quell’uomo? Quale privilegio lo portava da me a suo piacimento? Forse aveva in sospeso qualcosa col direttore, forse era un uomo importante, fuori di lì…
Felice mi addormentai mentre il mio thè si raffreddava sul comodino.

Arrivò S. Silvestro dunque e con esso anche lui entrò nella mia camera, come in un giorno normale.
Si spogliò e mi sorpresi a guardarlo.
Ne conoscevo ormai l’odore ed ogni gesto era in me così impresso che ancor oggi mi basta chiudere gli occhi per vederlo vibrare di fronte a me.
Lo amai quel pomeriggio… e fa male confessarlo: una brava puttana non cade mai in tali errori d’ingenuità.

Ero seduta sul letto mentre firmavo la fattura e fu allora che lui mi afferrò:
“Amami ancora oggi. Amami 2 volte… perché non sono capace di arrivare a domani senza di te.”
Lui mi stingeva le spalle quasi non potesse farne a meno. Avevo gli occhi serrati.
Non dissi nulla e lui mi spogliò di nuovo e di nuovo mi si sciolse addosso, come mai prima… come mai nessuno prima.
A tarda sera si rivestì e lo riaccompagnai fino alla soglia. Avrei voluto dire qualcosa, ma il secondino aveva aspettato anche troppo e se lo portò via, su per il corridoio, fino all’ascensore.

La notte ci fu fermento. Sentii rumori in cortile e gente che chiamava ai piani superiori.
Qualcuno correva, qualcuno bestemmiava. Era capodanno in fondo. Anche per chi è in galera il tempo passa e c’è ben poco da festeggiare.
Attesi la mezzanotte ascoltando la musica di Gershwin, poi dormii.
Il 1934 iniziava ed io non sapevo che farmene. Pensavo a lui e mi chiedevo per quanto ancora il direttore gli avrebbe concesso di venire da me a spese dello stato. Sorrisi complice… ed il sonno mi prese come un amante.

All’alba i secondini erano in agitazione.
La colazione celebrativa era stata disertata da tutti i carcerati. Non capivo.
Raggiunsi comunque la sala da pranzo, come per anni avevo fatto il 1° di Gennaio.
Nei corridoi c’era tensione, ma i detenuti tacevano tutti, nessuno era uscito dalla cella, nessuno parlava.
Ai piani superiori c’era un silenzio da far terrore anche ad una puttana di galere come me.
Il sacrestano m’incrociò di ritorno dall’infermeria e, per la prima volta dopo anni, ricambiò il mio saluto.
Gli chiesi cosa stava succedendo.
“Il condannato è morto – mi disse – si è tolto la vita ieri notte verso l’una. Vengo ora dall’infermeria”. I secondini che lo dovevano portare dal boia l’avevano trovato in quella cella appeso ad un trave, in pieno sole.
Il direttore mi passò accanto, silenzioso. Mi strinse il braccio e sospirò:
“Forse è stato meglio così. Sa? noi abbiamo fatto il possibile per lui”.

Lasciai la galera di stato dopo 5 giorni.
Coi soldi guadagnati in quegli anni acquistai la concessione per aprire un negozio.
Vendo libri di seconda mano, tenuti con cura.
Turno di chiusura: il giovedì pomeriggio.

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Come molti di voi sanno mi piace riportare nel blog brani di altre persone, trovati in giro nei diari della rete.
Era molto tempo che non leggevo qualcosa che mi sorprendesse davvero.
Questo brano mi è molto piaciuto. Spero sia piaciuto anche a voi.

Grazie all’autrice.

16 commenti
  1. a me da morire…bravo Ale…e grazie.

  2. molto molto bello!

  3. grazie alessandro
    sono molto onorata

    🙂
    fosca

  4. Sono o non sono meglio di Lele Mora???

  5. Grazie per la segnalazione, ora vado a fargli (farle?) i complimenti.
    Il racconto è fine e il contrasto tra l’ambiente carcerario ed emozioni e sentimenti descritti commovente.

  6. Davvero un brano splendido che ho letto tutto d’un fiato! Grazie Ale 🙂

  7. ricambio di cuore

  8. Grazie per la tua partecipazione al mio dolore 🙂
    Bello qui, davvero. Mi ci sono persa dentro.
    a presto

  9. Grazie per la segnalazione, Alessandro. E’ davvero bello. E grazie di ricordarti di me e venire a bussare per invitarmi ancora. Qui è bello, si bussa, un amico apre, ci si siede in uno spazio informale, si bevono insieme parole e poi si va via, con dentro un bel senso di amichevole condivisione. Grazie ancora.

  10. Io non sono ingenua. Difficile capirlo, forse.

  11. Ammore ma dov’è tu?
    Ricordati la favola 😉

  12. Davvero molto bello… grazie per averlo postato…

    un bacio, Cy

  13. è stupendo.
    grazie
    V.

  14. Veramente molto bello… e triste allo stesso tempo…
    bacio

  15. complimenti all’autrice …ho letto il racconto tutto d’un fiato…avrei voluto che fosse stato di alcune pagine più lungo …….

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